Abuso e trascuratezza nell’infanzia:
implicazioni cliniche
MASSIMO AMMANITI
Società Psicoanalitica Italiana (SPI)
Sapienza Università di Roma

■ Diagnosi del maltrattamento e della trascuratezza nell’infanzia
Il DSM-5 (APA, 2013), oltre ad aver incluso finalmente nella sua classificazione i disturbi da stress post-traumatico in campo infantile, ha aperto una finestra importante per quanto riguarda i disturbi relazionali all’interno della famiglia e in particolare nell’ambito della relazione fra genitori e figli. Va, tuttavia, segnalato che i problemi relazionali sono collocati nel Capitolo “Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione o che possono influenzare la diagnosi”, dunque non sono considerate come diagnosi specifiche ma come condizioni che “possono anche essere comprese nella registrazione medica come utili informazioni sulle circostanze che possono influenzare la cura del paziente, a prescindere dalla loro rilevanza nell’attuale visita”.
Queste informazioni appaiono particolarmente rilevanti nella ricostruzione della patologia degli adulti nella cui anamnesi personale si può mettere in luce una storia di abusi e/o di trascuratezza che, come è ben noto, è presente spesso nei disturbi di personalità.
Sempre in questo Capitolo, si fa riferimento ai problemi relazionali che riguardano specialmente relazioni intime tra partner adulti e relazioni genitore/caregiver-bambino che hanno un impatto significativo sulla salute personale. Più specificamente, nella sezione dedicata all’Abuso e alla Trascuratezza, si sottolinea che queste situazioni traumatiche possono interessare sia il contesto familiare – quest’ultimo, più frequentemente - che quello extrafamiliare. In questo ambito vengono distinti i problemi legati all’abuso fisico che implica lesioni fisiche non accidentali che riguardano i bambini, quelli legati all’abuso sessuale che implica atti sessuali in cui è coinvolto un bambino, e quelli legati all’abuso psicologico che si riferisce a comportamenti non accidentali degli adulti che causano danni psicologici al bambino. Infine, viene identificata la trascuratezza psicologica che implica atti offensivi oppure omissioni e carenze gravi da parte degli adulti nella cura dei figli e che determinano una grave deprivazione dello sviluppo infantile.
Sul piano diagnostico, tuttavia, il DSM-5 colloca l’abuso e la trascuratezza all’interno del nuovo capitolo “Disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti”, in cui viene messa in luce, se non una patogenesi ed una psicodinamica degli stati traumatici, almeno una correlazione tra “eventi” traumatici e stressanti e disturbi successivi. Certamente l’approccio del DSM-5, come quello del DSM-IV, appare lontano dalle teorie psicodinamiche, anche perché la prospettiva adottata nel Manuale è apparentemente ateorica e meramente descrittiva.
In questo capitolo infatti, analogamente alle teorie traumatiche del passato, come ad esempio quella iniziale dello stesso Freud, il trauma viene definito come un “evento esterno, causale, necessario per la diagnosi di Disturbo da stress post-traumatico (DSPT) e di Disturbo da stress acuto”.
I criteri del DSM-5 per il disturbo da stress post-traumatico (DSPT) differiscono da quelli del DSM-IV in vari aspetti. Anzitutto sono stati introdotti criteri che tendono ad abbassare cronologicamente le soglie diagnostiche del disturbo all’infanzia e all’adolescenza e vengono presi in considerazione criteri aggiuntivi specifici per i bambini sotto i 6 anni che presentano questo disturbo.
Il criterio relativo al fattore stressante (Criterio A) è più esplicito in riferimento agli eventi che qualificano le esperienze “traumatiche” che implicano l’esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione oppure violenza sessuale. È stato eliminato il criterio A2 del DSM-IV, cioè la risposta soggettiva emotiva della persona: paura intensa, sentimenti di impotenza o di orrore, anche se queste emozioni vengono poi inserite nel criterio D. Appare evidente il tentativo di valorizzare i comportamenti osservabili ed evidenziabili dal clinico, mentre le risposte emotive soggettive difficili da riconoscere sono relativamente circoscritte nonostante vengano poi riconosciuti fattori individuali che influenzano la risposta al trauma quali fattori temperamentali, genetici e fisiologici (es. genere femminile, età più giovane) e fattori ambientali pre-peri e post-traumatici.
Per quanto riguarda i sintomi, mentre nel DSM-IV erano presi in considerazione 3 cluster principali, ossia il rivivere persistentemente l’evento traumatico, l’evitamento/intorpidimento e l’aumento dell’arousal, nel DSM-5 vengono definiti 4 cluster, perché oltre alla presenza di uno o più sintomi intrusivi, all’evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico, si aggiunge un 4° criterio (D) caratterizzato da alterazioni negative di pensieri ed emozioni associati all’evento traumatico. Quest’ultimo criterio comprende la maggior parte dei sintomi di appiattimento dell’affettività del DSM-IV, ma anche sintomi nuovi o riformulati come ad esempio stati emotivi negativi persistenti.
Per quanto riguarda il cluster finale, alterazioni della reattività e dell’arousal, comprende anche comportamento irritabile o esplosioni di rabbia e comportamento spericolato o autodistruttivo (frequenti in adolescenza).
Va segnalato che il DSPT viene esteso anche ai bambini sotto i 6 anni per i quali viene precisato che i ricordi spontanei e intrusivi non appaiono necessariamente come spiacevoli e possono essere espressi come gioco ritualizzato. Si possono verificare anche alterazioni negative della cognitività.
Nello stesso capitolo dei “disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti” vengono anche considerati il disturbo reattivo dell’attaccamento, il disturbo da impegno sociale disinibito e i disturbi dell’adattamento.
Nel DSM-5 si è scelto di riunire in un unico capitolo quadri diagnostici diversi che nel DSM-IV erano diversamente collocati. Il Disturbo da stress post-traumatico e il Disturbo da stress acuto erano, infatti, all’interno del capitolo “Disturbi d’ansia”, mentre il Disturbo reattivo dell’Attaccamento dell’Infanzia e della Prima Fanciullezza, con i suoi sottotipi Inibito e Disinibito, nel DSM-IV era all’interno del capitolo Altri Disturbi dell’Infanzia, della Fanciullezza o dell’Adolescenza. L’elemento comune tra queste diagnosi diverse è la presenza della “sofferenza psicologica che segue l’esposizione a un evento traumatico o stressante”. Si fa anche riferimento al fenotipo per cui si verificano variabilità individuali di fronte agli stessi eventi traumatici o stressanti, ad esempio possono comparire non solo sintomi basati sull’ansia o sulla paura, ma anche “sintomi anedonici e disforici, sintomi di rabbia e aggressività esternalizzate, oppure sintomi dissociativi”. In questa descrizione vi è dunque sia l’elemento causale esterno (il trauma, lo stress, ma protratto o cumulativo) che la risposta individuale (un “fenotipo” appunto, fino a parlare di “vulnerabilità neurobiologica”), che potrebbe differenziare i bambini trascurati (entro i 2 anni di età) che sviluppano il disturbo da impegno sociale disinibito.
Nel DSM-5 emerge l’esigenza di prendere in considerazione la risposta temperamentale o interna, molto vicina al quesito che si era posto Sigmund Freud nell’osservare la risposta individuale non univoca al singolo evento traumatico, rilievo che lo avrebbe portato a sviluppare successivamente la teoria pulsionale.
Per il Disturbo reattivo dell’attaccamento ed il Disturbo da impegno sociale disinibito vengono posti dei limiti temporali (esordio prima dei 5 anni e dopo i 9 mesi) e la possibile concomitanza, per l’eziologia condivisa, con ritardi dello sviluppo. Si precisa, peraltro, che mentre il primo si esprime come un disturbo internalizzante con sintomatologia depressiva e comportamento ritirato, il secondo è caratterizzato da disinibizione e comportamento esternalizzante. Viene anche introdotto un elemento dimensionale di gravità: il disturbo viene infatti “specificato come grave quando il bambino presenta tutti i sintomi del disturbo, e ogni sintomo è manifestato ad un livello relativamente alto”.
Il Disturbo da impegno sociale disinibito, divenuto categoria a sé mentre nel DSM-IV era il sottotipo Disinibito del Disturbo reattivo dell’Attaccamento dell’Infanzia e della Prima Fanciullezza, viene descritto anche in adolescenza (ma non in età adulta) con compromissione delle relazioni con i pari, che risultano essere superficiali e conflittuali, e comportamento indiscriminato.
Un aspetto interessante che caratterizza il DSM-5 è l’eliminazione del Capitolo Diagnostico presente nel DSM-IV “Disturbi solitamente diagnosticati per la prima volta nell’Infanzia, nella Fanciullezza o nell’Adolescenza” che vengono assorbiti all’interno delle categorie dei Disturbi. Anche se non è esplicitato, teoricamente, nel Manuale del DSM-5 si può supporre che tale scelta sia stata motivata dalla possibile continuità fra i disturbi dell’infanzia e quelli delle fasi successive della vita come ad esempio abbiamo messo in luce nel DSPT, il cui quadro clinico è evidenziabile negli adulti, negli adolescenti e nei bambini di età superiore ai 6 anni. Un’ulteriore conferma della continuità psicopatologica si osserva nel Disturbo Evitante/Restrittivo dell’assunzione di cibo che sostituisce ed estende la diagnosi del DSM-IV relativa ai disturbi della nutrizione e dell’alimentazione dell’infanzia e della prima infanzia. Come viene ulteriormente specificato, l’evitamento o la restrizione dell’assunzione di cibo si sviluppano più comunemente nell’infanzia o nella prima infanzia e possono persistere in età adulta.
In questo caso l’evitamento o la restrizione dell’assunzione di cibo si sviluppano più comunemente nell’infanzia e possono persistere nell’età adulta. Come è stato messo in luce da Costello e collaboratori (Costello, Mustillo, Erkanli, Keeler e Angold, 2003), questa continuità psicopatologica sarebbe di tipo omotipico, ossia implicherebbe un nucleo psicopatologico sostanzialmente sovrapponibile nelle varie fasi del ciclo vitale, quantunque le manifestazioni possano essere influenzate dalle acquisizioni cognitivo-affettive di ogni fase di sviluppo. Al contrario, la continuità eterotipica, che implica espressioni psicopatologiche diverse nel corso del ciclo vitale, non è presa in considerazione nel DSM-5, mentre assume un carattere rilevante nella Psicopatologia dello Sviluppo con i concetti di multifinalità ed equifinalità che indicano percorsi psicopatologici diversi. Ad esempio, dopo un evento traumatico può emergere un disturbo diverso da quello post-traumatico come una grave inibizione cognitiva. Nel caso del Disturbo da Stress Post-Traumatico, più che considerare la continuità omotipica, viene messo in luce che le manifestazioni post-traumatiche possono comparire anche nei primi anni di vita e possono assumere una particolare configurazione sintomatologica che ricalca, tuttavia, la fenomenologia negli adulti. Come viene messo in luce nei bambini sotto i 6 anni, il quadro clinico è sostanzialmente sovrapponibile; tuttavia, le manifestazioni traumatiche compaiono tipicamente nel gioco e i sintomi intrusivi legati ai ricordi traumatici non suscitano necessariamente stati di disagio. Va tenuto presente che nei bambini è difficile mettere in luce stati soggettivi anche perché le capacità di verbalizzazione e di insight non sono ancora adeguatamente sviluppate.
Tuttavia, nonostante il DSM-5 non consideri la continuità omotipica dei disturbi post-traumatici, si sottolinea che il DSPT può continuare a manifestarsi anche in età adulta. Le ricerche longitudinali in questo ambito hanno messo in luce che può diventare un disturbo cronico nel 50% dei casi (Davidson e Fairbank, 1993) con una notevole riduzione della sintomatologia nel tempo, anche se i sintomi non scompaiono completamente. In uno studio longitudinale nei bambini in età prescolare (Laor, Wolmer, Mayes, Gershon, Weizman e Cohen, 1997) si è messo in luce che il gruppo più gravemente traumatizzato manifestava una riduzione della sintomatologia dopo 30 mesi a differenza del gruppo meno traumatizzato, a riprova della difficoltà a definire un percorso psicopatologico paradigmatico proprio perché i fattori in gioco sono molteplici, da quelli familiari a quelli individuali, sia di tipo temperamentale, che neurobiologico e psicologico.
■ Psicodinamica del maltrattamento e della trascuratezza
Se questo è il quadro del Disturbo da Stress Post-Traumatico in campo infantile preso in considerazione dal DSM-5, che mostra tuttavia evidenti limiti, la ricerca in campo psicodinamico e psicopatologico ha approfondito le complesse dinamiche dell’abuso e della trascuratezza che sono fondamentali nell’intervento terapeutico.
Gli studi sulle interazioni genitore-bambino nelle famiglie maltrattanti hanno individuato la presenza di maggiori comportamenti disadattivi, rispetto alle famiglie non maltrattanti. I genitori maltrattanti manifestano minore soddisfazione con i figli, percepiscono l’accudimento come più conflittuale e meno gratificante, e utilizzano metodi educativi maggiormente controllanti. I genitori abusanti non sostengono e, a volte, interferiscono con lo sviluppo dell’autonomia dei bambini, obbligandoli a vivere in un contesto familiare isolato (Azar, 2002; Rogosch, Cicchetti, Shields e Toth, 1995; Trickett, Aber, Carlson e Cicchetti, 1991; Trickett e Sussman,1988). I genitori abusanti utilizzano meno scambi fisici e verbali per attrarre e orientare l’attenzione dei bambini (Alessandri, 1992; Bousha e Twentyman, 1984); questi genitori, inoltre, mostrano aspettative inadeguate verso i figli (Putallaz, Costanzo, Grimes e Sherman, 1998), ai quali attribuiscono più intenzioni negative, rispetto a quanto osservato nelle famiglie non maltrattanti (Dixon, Hamilton-Giachritsis e Browne, 2005; Zeanah e Zeanah, 1989).
L’attaccamento dei bambini maltrattati è profondamente influenzato dalle interazioni con i genitori. In questi bambini, infatti, la procedura osservativa della Strange Situation (Ainsworth e Wittig, 1969) ha rilevato una prevalenza di attaccamenti insicuri, significativamente maggiore di quella osservata nei bambini non maltrattati (Cicchetti e Barnett, 1991; Crittenden, 1985; Egeland e Sroufe, 1981; Lamb, Gaensbauer, Malkin e Schultz, 1985; Schneider-Rosen, Braunwald, Carlson e Cicchetti, 1985). Assumendo la classificazione tradizionale dell’attaccamento che classifica i bambini come ansiosi-evitanti, sicuri e ansiosi-resistenti (Ainsworth; Blehar, Waters e Wall, 1978), questi primi studi hanno, infatti, evidenziato la presenza di un attaccamento insicuro (ansioso-evitante o ansioso-resistente) nei due terzi dei bambini maltrattati (Schneider-Rosen et al., 1985; Youngblade e Belsky, 1989).
Come abbiamo già discusso, la ricerca ha sottolineato la difficoltà di includere i comportamenti di attaccamento dei bambini maltrattati all’interno della classificazione originale della Ainsworth (Egeland e Sroufe, 1981), in quanto caratterizzati da strategie inconsistenti, contraddittorie o disorganizzate nei confronti delle separazioni e le riunioni con i caregiver. Di conseguenza, l’osservazione di questi bambini ha portato all’identificazione dell’ulteriore pattern di attaccamento di tipo disorganizzato (Main e Solomon, 1990). Durante le interazioni con il bambino, oltre a forme di accudimento inconsistente, i genitori maltrattanti possono presentare un comportamento insensibile, iperstimolante e ipostimolante (Belsky, Rovine e Taylor, 1984; Crittenden, 1985; Lyons-Ruth, Connell, Zoll e Stahl, 1987).
La combinazione di questi due stili contraddittori di accudimento potrebbe favorire lo sviluppo di una strategia inconsistente, tipica dell’attaccamento disorganizzato (Cicchetti e Lynch, 1995). Oltre alla disorganizzazione, i bambini con questo pattern di attaccamento spesso mostrano comportamenti bizzarri in presenza del loro caregiver, come interruzioni nei movimenti e nelle espressioni, apprensione, confusione, freezing (ossia, congelamento posturale) e rigidità comportamentale (Fraiberg, 1982).
Numerosi studi hanno esaminato il clima affettivo delle famiglie maltrattanti, evidenziando come i genitori esprimano meno emozioni positive e più negative (Herrenkohl, Herrenkohl, Egolf e Wu, 1991; Kavanaugh, Youngblade, Reid e Fagot, 1988; Lyons-Ruth et al., 1987), all’interno di interazioni che risultano altamente aggressive sul piano verbale e fisico (Bousha e Twentyman, 1984; Crittenden, 1981). Rispetto alle madri non abusanti, le madri abusanti sono state descritte come più controllanti, intrusive e ostili nei confronti dei loro figli (Cerezo, 1997; Crittenden, 1981, 1985). Questi comportamenti vengono frequentemente riproposti dai bambini, provocando scambi negativi caratterizzati da rabbia (Loeber, Felton e Reid, 1984).
Nelle famiglie maltrattanti sono state osservate dinamiche fortemente distorte nella relazione genitore-bambino, caratterizzate dall’aspettativa dei genitori che il bambino possa assumere il ruolo di caregiver nei loro stessi confronti (Howes e Cicchetti, 1993).
Un’interessante ricerca ha rilevato nei bambini maltrattati (indipendentemente dalla loro capacità cognitiva) una ridotta capacità di riconoscere le emozioni (Camras, Ribordy, Hill, Martino, Spaccarelli e Stefani 1988; Camras, Grow e Ribordy, 1983), unita a una specifica ipersensibilità verso la rilevazione della rabbia (Camras, Ribordy, Hill et al., 1990). Numerosi studi condotti nell’ultimo decennio da Pollak e collaboratori (Pollak, Cicchetti, Hornung e Reed, 2000) hanno esaminato la capacità di riconoscimento delle emozioni in bambini maltrattati di età scolare. Secondo questi ricercatori, nei bambini vittime di abuso fisico, l’accentuata sensibilità nei confronti dei segnali associati alla rabbia è legata a una scarsa capacità attentiva e di riconoscimento nei confronti degli altri segnali emozionali. In questi bambini, la rabbia viene percepita come l’espressione emozionale più saliente del proprio ambiente di vita, poiché rappresenta il maggiore elemento predittivo delle situazioni imminenti di minaccia e pericolo.
Negli ultimi anni, la ricerca neuroscientifica, attraverso l’uso dei potenziali evento-correlati, ha indagato gli effetti del maltrattamento sui processi elettrofisiologici implicati nel riconoscimento delle emozioni facciali (Curtis e Cicchetti, 2011). I potenziali evento-correlati forniscono un indice diretto del funzionamento neurale associato a uno stimolo facciale. L’evidenza empirica ha individuato gli effetti del maltrattamento sugli indici neurali del processamento emozionale, sia durante lo sviluppo precoce (a trenta mesi di vita del bambino; Cicchetti e Curtis, 2005) sia nelle fasi evolutive successive (a quarantadue mesi di vita; Curtis e Cicchetti, 2011). I potenziali evento-correlati si presentano con elevato grado nelle aree occipitali considerate sensibili all’elaborazione dei volti; inoltre, l’ampiezza della componente P1, stimolata dai volti con espressioni di rabbia, è maggiore nei bambini maltrattati, rispetto a quelli non maltrattati. Questi risultati confermano l’ipotesi che i bambini maltrattati siano più sensibili ai volti esprimenti rabbia (Curtis e Cicchetti, 2011), non solo perché sono più abituati a questo tipo di emozione, ma anche perché i volti arrabbiati hanno un’importanza particolare nella loro vita. Ovviamente, questi dati hanno delle rilevanti implicazioni per l’intervento con i bambini maltrattati, i quali hanno bisogno non solo di un sostegno protettivo, ma anche di un apprendimento emozionale che possa facilitare il riconoscimento delle emozioni a cui non sono abituati.
Gli eventi traumatici, come il maltrattamento, l’abuso, il conflitto familiare e la violenza, compromettono i processi di integrazione delle esperienze relazionali all’interno del sé del bambino, favorendo una grave distorsione nella rappresentazione del sé e del proprio senso di agency (Ogawa Sroufe, Weinfeld, Carlson e Egeland, 1997). Le conseguenze della dissociazione, del rifiuto e della rimozione sono caratterizzate da una mancanza di integrazione del sé, che viene compromesso nel funzionamento emozionale e cognitivo. Ovviamente, il periodo della vita in cui il trauma si verifica è un aspetto molto critico; come dimostrato da Ogawa e collaboratori, “i soggetti [della ricerca] che avevano sperimentato il trauma per la prima volta durante l’infanzia presentavano punteggi più elevati sulla dissociazione in tutti i tempi di osservazione” (1997, p. 872). L’esperienza del maltrattamento e dell’abuso sessuale durante l’infanzia è fortemente predittiva della dissociazione in adolescenza; in presenza di una carente disponibilità genitoriale durante l’infanzia, invece, i fenomeni dissociativi tendono a manifestarsi in età adulta. Dal punto di vista psicologico e psicopatologico, la dissociazione infantile rappresenta una tipica reazione alle avversità, dal momento che i bambini tendono a utilizzare la fantasia o il gioco durante le situazioni conflittuali. Nelle fasi successive dello sviluppo, la fantasia può assumere un significato psicopatologico, divenendo una risposta di routine – una sorta di rifugio psichico (Steiner, 1993) – alle difficoltà, che indebolisce l’organizzazione del sé, creando modelli multipli del sé, così come è stato descritto da Bowlby (1969/1982).
A questo proposito, Schore ha commentato: “Negli stati di dissociazione patologica, ‘la linea telefonica rossa’ del cervello destro è spenta. Il cervello destro è fondamentalmente coinvolto in un meccanismo difensivo evitante per fronteggiare lo stress emozionale e utilizza la strategia passiva, utile alla sopravvivenza, della dissociazione” (2010, p.36). In particolare, l’abuso infantile interferisce con la maturazione del sistema limbico dell’emisfero destro, provocando l’insorgenza di processi di tipo dissociativo (Symonds, Gordon, Bixby e Mande, 2006).
■ Le dinamiche delle famiglie maltrattanti
Analizziamo ora le dinamiche psicologiche delle famiglie trascuranti. Le madri non accudenti tendono ad avere poche aspettative nei confronti dei propri bambini, mostrano una scarsa responsività nei confronti dei loro segnali e non riescono a contenerne il distress emozionale (Crittenden, 1988). L’atteggiamento familiare trascurante è caratterizzato dalla mancanza di modalità adeguate di accudimento primario ed è frequentemente associato a numerosi fattori di stress familiare (Connell-Carrick e Scannapieco, 2006; Crittenden, 1981), come: elevata conflittualità familiare, affetti negativi e violenza domestica (Connell-Carrick e Scannapieco, 2006; Gaudin, Polansky, Kilpatrick e Shilton, 1996).
In un’interessante ricerca longitudinale, Shi e collaboratori (Shi, Bureau, Easterbrooks, Zhao e Lyons-Ruth, 2012) hanno esplorato l’influenza del ritiro materno nello sviluppo del bambino, considerando gli esiti a venti anni. Il ritiro materno – caratterizzato da comportamenti interattivi silenziosi, incapacità di accogliere le iniziative del bambino e uso eccessivo di oggetti per calmarlo – crea “un sentimento affettivamente morto ed emotivamente distante nell’interazione, che trasmette al bambino la riluttanza del genitore a partecipare a una relazione basata sulla vicinanza fisica e sul coinvolgimento emozionale” ( ibidem, p. 64). Una madre così distante e non emotivamente disponibile rimanda al concetto psicoanalitico della “madre morta”, descritto da André Green (1983): la madre non investe il bambino a livello emotivo e libidico; il bambino, non comprendendo una tale freddezza e distanza, rispecchia il proprio oggetto materno, identificandosi con la madre morta.
Questo tipo di esperienze risulta predittivo delle manifestazioni del disturbo di personalità antisociale, indipendentemente dal tipo di abuso subito dal bambino (Shi et al., 2012). Sarebbe interessante esplorare come il ritiro materno influenzi i meccanismi di regolazione biologica dell’arousal del bambino nelle situazioni stressanti. Come documentato dalla ricerca sugli animali, un accudimento precoce meno attento favorisce un’accentuata risposta allo stress nell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (Barr, Newman, Shannon et al., 2004; Francis, Diorio, Liu e Meaney, 1999) e influenza negativamente il metabolismo della noradrenalina, della dopamina e della serotonina.
■ Fattori di rischio e resilienza
La ricerca ha ampiamente documentato le conseguenze negative psicologiche e neurofisiologiche dei bambini provenienti da famiglie altamente conflittuali, mentre non ha adeguatamente studiato la popolazione infantile che presenta uno sviluppo normale e senza particolari vulnerabilità, nonostante le avversità familiari (Cummings e Davies, 1994). Per tali ragioni, sarebbe utile costruire un modello del rischio e della vulnerabilità, basato sia sull’identificazione dei fattori di protezione e di resilienza, sia sul riconoscimento dei processi sottostanti che modulano l’adattamento infantile nelle famiglie altamente conflittuali.
In questo ambito, le valutazioni dovrebbero essere abbastanza discriminanti da cogliere la natura dinamica della resilienza, dal momento che anche i bambini resilienti potrebbero sviluppare notevoli problemi nel tempo (Luthar e Cicchetti, 2000).
L’abuso e il maltrattamento rappresentano le esperienze più stressanti e negative per lo sviluppo infantile: nonostante molti bambini ne vengano negativamente influenzati (Cicchetti e Lynch, 1995), non tutti manifestano conseguenze gravi (Cicchetti e Rogosch, 2012). Al fine di spiegare i fattori di resilienza dei bambini che non manifestano esiti negativi, la ricerca ha focalizzato l’attenzione sui fattori psicosociali, considerando le caratteristiche di personalità, le relazioni di attaccamento sicuro, la capacità di autoregolazione, il sostegno genitoriale e la presenza di un contesto sociale positivo (Haskett, Sabourin Ward, Nears e McPherson, 2006). Uno studio di Cicchetti e Rogosch (1997) ha mostrato come gli elementi maggiormente predittivi della resilienza siano rappresentati dalle caratteristiche di personalità di ego overcontrol (ossia, la capacità di monitorare e controllare gli impulsi, e di regolare gli affetti) e l’ego resilience (ossia, la flessibilità personale negli affetti e nel comportamento). Oltre a ciò, sono stati considerati anche altri livelli di analisi, come, per esempio, lo studio dell’asimmetria elettroencefalografica. In questo ambito, Curtis e Cicchetti (2007) hanno rilevato un’associazione tra la resilienza dei bambini maltrattati e un’asimmetria elettroencefalografica, caratterizzata da un’iper-attivazione sinistra. Un’interessante ricerca (Cicchetti e Rogosch, 2007) ha studiato il metabolismo degli ormoni steroidi in bambini abusati fisicamente. Lo studio ha rilevato un funzionamento maggiormente resiliente nei bambini con livelli elevati di cortisolo al mattino, rispetto a quelli che presentavano livelli bassi. Nell’abuso e nel maltrattamento sono coinvolti anche altri sistemi biologici, tra cui la struttura e il funzionamento cerebrale (De Bellis, 2001, 2005) e la neurobiologia dello stress (Cicchetti, Rogosh, Gunnar e Toth, 2010).
Le esperienze stressanti sopra descritte rappresentano dei rilevanti fattori di rischio per lo sviluppo infantile e predicono un’ampia gamma di conseguenze negative. Mentre inizialmente la ricerca ha orientato l’attenzione sulle conseguenze di un singolo fattore di rischio, successivamente gli studi hanno iniziato a considerare l’importanza del rischio cumulativo, ossia l’esito dalla co-occorrenza dinamica di numerosi fattori rischio. Allo stesso tempo, l’osservazione di bambini adeguatamente adattati in contesti familiari ad alto rischio ha stimolato l’individuazione degli elementi associati a tali esiti positivi e dei relativi processi sottostanti (Masten e Powell, 2003). Questi aspetti sono stati definiti fattori protettivi, ossia “correlati di una accentuata competenza nelle condizioni avverse” (Masten e Powell, 2003, p. 13). I fattori protettivi, individuabili in base alla loro specificità, riguardano le competenze personali, la capacità relazionale, il contesto e le risorse della comunità di appartenenza. Ciononostante, il concetto di “fattore protettivo” è stato utilizzato spesso per descrivere gli effetti delle interazioni. Secondo Rutter, la resilienza può essere definita come una ridotta vulnerabilità nei confronti delle esperienze di rischio ambientale, del verificarsi di uno stress o di una grave difficoltà, oppure come il risultato relativamente positivo, nonostante le esperienze di rischio […] Si tratta, dunque, di un concetto interattivo, che presuppone che la resilienza debba essere inferita dalle differenze tra gli individui che hanno sperimentato significativi stress o avversità (2012, p. 336).
La definizione di un quadro concettuale comprendente il rischio, i fattori protettivi e la resilienza non può prescindere dalla considerazione che questi concetti siano, a volte, non chiari e confondenti. È infatti utile fare una distinzione tra il termine resilience, che dovrebbe essere utilizzato quando ci si riferisce al processo di competenza personale a dispetto delle avversità, e il termine resiliency, che dovrebbe essere usato quando ci si riferisce a uno specifico tratto di personalità. Un buon esempio di resilience è rappresentato dall’interazione geni-ambiente.
Attraverso metodi genetici molecolari, sono stati identificati dei geni che esprimono una specifica suscettibilità individuale verso la patologia e che interagiscono con fattori mediati dall’ambiente (Moffitt, Caspi e Rutter, 2005). Gli studi di Caspi e collaboratori (Caspi, McClay, Moffitt et al., 2002; Caspi, Sugden, Moffitt et al., 2003; Caspi, Moffitt, Cannon et al., 2005) hanno rilevato un’assenza di significatività dell’effetto principale dei geni, una modesta significatività dell’effetto principale dell’ambiente e un rilevante effetto significativo dell’interazione geni-ambiente.
L’interazione geni-ambiente ha ricevuto una sostanziale conferma dallo studio longitudinale di Caspi e collaboratori (2002), condotto su un ampio campione di bambini di sesso maschile (dalla nascita fino all’età adulta), con il seguente obiettivo: comprendere perché, a differenza della maggior parte delle vittime del maltrattamento, alcuni individui non sviluppino comportamenti antisociali. Nello studio, la suscettibilità genetica al maltrattamento è stata esplorata testando le differenze individuali nel polimorfismo funzionale nel promotore dell’enzima monoamina-ossidasi A. Il gene della monoamina-ossidasi A codifica l’enzima monoamina-ossidasi A, che interviene nel metabolismo disattivando alcuni neurotrasmettitori, come la noradrenalina, la serotonina e la dopamina. È stato ipotizzato che il maltrattamento infantile possa predisporre i bambini al comportamento antisociale se il loro livello di monoamina-ossidasi A non è sufficiente a limitare l’influenza del maltrattamento sul sistema dei neurotrasmettitori. La ricerca ha rilevato un ridotto effetto del maltrattamento infantile sul comportamento antisociale dei maschi che presentavano livelli elevati di attività della monoamina-ossidasi A, rispetto a quelli con livelli bassi di attività di questo enzima.
Un ulteriore studio longitudinale di Caspi e collaboratori (2003) ha fornito una nuova conferma all’interazione geni-ambiente, attraverso lo studio delle manifestazioni depressive, presenti in alcuni individui e non in altri, in risposta alle situazioni stressanti. Questa ricerca ha individuato un polimorfismo nella regione promotrice del gene trasportatore della serotonina, il cui allele corto (singolo o doppio) non protegge dai sintomi depressivi nelle situazioni stressanti, a differenza di quanto osservato nei casi di allele doppio lungo.
Ulteriori studi hanno esplorato gli effetti di diversi tipi di fattori stressanti sul gene promotore del trasporto della serotonina, rilevando un’interazione geni-ambiente modestamente significativa nel caso degli eventi di vita, e un’interazione geni-ambiente altamente significativa nel caso del maltrattamento (Karg, Burmeister, Shedden e Sen, 2011).
■ Modelli psicopatologici delle esperienze traumatiche
Questi dati sottolineato l’importanza dei fattori di elevato rischio ambientale, che possono verificarsi durante il primo anno di vita. Un’altra rilevante conclusione di tutti gli studi replicati è che il fattore genetico, non essendo stato rilevato un suo effetto principale, non può essere considerato una predisposizione verso un particolare disturbo mentale, bensì una vulnerabilità alle influenze ambientali. Rispetto alle influenze ambientali, i risultati hanno confermato che gli effetti principali del rischio dipendono da avversità gravi e croniche come il maltrattamento, piuttosto che da stress acuti (Rutter, 2012). Ovviamente, questa interazione geni-ambiente è attiva molto prima dell’inizio del disturbo, predisponendo verso una vulnerabilità psicopatologica.
L’interazione geni-ambiente è strettamente associata alla suscettibilità differenziale all’ambiente e alle esperienze di accudimento (Ellis e Boyce, 2011). Boyce e Ellis (2005), partendo dalle osservazioni delle differenze individuali infantili nella reattività autonomica e adrenocorticale, hanno avanzato un’ipotesi relativa alla sensibilità biologica al contesto, che presenta elementi di sovrapposizione con la teoria della suscettibilità differenziale di Belsky (2005). Tale suscettibilità differenziale è radicata nelle differenze nel funzionamento personale dei circuiti neurobiologici. A questo proposito, Whittle e collaboratori (Whittle, Yap, Sheeber et al., 2011) hanno dimostrato che le differenze nella struttura dell’ippocampo possono essere associate a una vulnerabilità nei confronti dei contesti negativi; il volume dell’ippocampo sembra inoltre un elemento predittivo fondamentale degli esisti positivi in presenza di un ambiente favorevole. Secondo gli autori, l’ippocampo potrebbe giocare un ruolo centrale nella sensibilità per il contesto, anche in virtù delle sue implicazioni nei processi di apprendimento e di memoria. Un ulteriore sistema coinvolto nella sensibilità al contesto è rappresentato dal sistema neuroendocrino di risposta allo stress.
Sinora, il paradigma dominante in questo campo di studio è stato il modello diatesi-stress (Sameroff, 1983) che ipotizza che alcuni individui, a causa di una specifica vulnerabilità, siano particolarmente e negativamente influenzati dai fattori di stress ambientale. L’effetto sinergico scaturito dall’interazione tra diatesi e rischio ambientale rappresenta, quindi, un rilevante rischio per lo sviluppo futuro.
Seppure assumendo una diversa prospettiva, la teoria della sensibilità al contesto (Ellis e Boyce, 2011) e la teoria della suscettibilità differenziale (Belsky, Bakermans-Kranenburg e van IJzendoorn, 2007) si focalizzano entrambe sull’interazione persona-ambiente, sottolineando il valore delle caratteristiche dell’organismo nel moderare gli effetti sia delle condizioni stressanti sia di quelle ambientali supportive. Ellis e Boyce (2011) hanno individuato un meccanismo fisiologico della suscettibilità, basato sulla reattività autonomica, adrenocorticale e immunitaria.
Gli autori hanno proposto un’interessante distinzione tra i bambini maggiormente suscettibili – denominati “bambini orchidea” (ibidem, p. 11) –, che presentano un’accentuata sensibilità alle influenze ambientali sia positive sia negative, e i bambini con una bassa reattività – definiti “bambini dente di leone” (ibidem) –, che, al contrario, funzionano in modo adeguato in un’ampia gamma di situazioni, comprese quelle avverse.
I bambini maltrattati crescono in un contesto multiproblematico, caratterizzato da povertà, violenza genitoriale, psicopatologia genitoriale, criminalità, abuso di droga e alcol, e condizioni ambientali pericolose (Appel e Holden, 1998; Jaffee, 2005; Lynch e Cicchetti, 1998; Sedlak e Broadhurst, 1996). Come è stato proposto dal modello dello stress cumulativo (Repetti, Taylor e Seeman, 2002; Rutter, 1979; Seifer, Sameroff, Baldwin e Baldwin, 1992), condizioni di stress così gravi possono ostacolare un adeguato funzionamento dei bambini, anche in presenza di forti dotazioni personali. A questo proposito, Sameroff e collaboratori (Sameroff Bartko, Baldwin, Baldwin e Seifer, 1998) hanno messo in luce come i fattori protettivi personali non abbiano alcun effetto sul funzionamento dei bambini esposti a un elevato numero di fattori di rischio ambientale. Jaffee e collaboratori (Jaffee, Caspi, Moffitt, Polo-Tomás e Taylor, 2007) hanno fornito una recente conferma al modello di rischio cumulativo, ipotizzando, sulla base delle loro ricerche, che i bambini provenienti da famiglie multiproblematiche possano non avere abbastanza risorse personali per raggiungere un adattamento positivo.
La letteratura scientifica sui fattori di rischio multipli non risolve una questione importante: ossia, se l’impatto del rischio cumulativo sul comportamento sia descritto più efficacemente da un modello soglia o piuttosto da un modello lineare. I modelli di rischio cumulativo affermano che sia l’accumulo dei fattori di rischio, e non la presenza o assenza di fattori di rischio specifici, a provocare conseguenze clinicamente significative. Questi aspetti sono stati evidenziati nel classico studio di Rutter (1979) nell’Isola di Wight e nel Rochester Longitudinal Study (Sameroff, 2000). Le conseguenze disadattive sullo sviluppo infantile sono state descritte da due diversi modelli. Il primo modello, basato sull’effetto soglia, presuppone che, superato un certo numero di fattori di rischio, si verifichi un grave aumento dei problemi comportamentali (Rutter, 1979); il secondo modello sostiene invece una prospettiva cumulativa o lineare, che prevede un aumento progressivo dell’effetto negativo.
I risultati della recente ricerca longitudinale di Appleyard e collaboratori (Appleyard, Egeland, van Dulmen e Sroufe, 2005) sostengono il modello di rischio cumulativo, secondo cui il numero dei fattori di rischio nella prima infanzia risulta predittivo dei problemi comportamentali durante l’adolescenza. La conclusione è che più numerosi sono i fattori di rischio, peggiori saranno le conseguenze nel bambino.
Nel concludere questo capitolo vorrei citare un recentissimo articolo di Bick e collaboratori (Bick, Zhu, Stamoulis, Fox, Zeanah e Nelson, 2015) in cui si mettono in luce le gravi conseguenze dell’istituzionalizzazione in bambini rumeni, in cui si sono assommate gravi deprivazioni e carenze con esperienze traumatiche. In questi bambini si è verificata una grave violazione dell’ambiente atteso (expectable environment) che non ha provveduto alle esperienze che i membri della specie umana si aspettano di sperimentare. Questa violazione comporta inevitabilmente gravi disturbi sul piano psicologico e cognitivo ma anche sul piano cerebrale, in particolare micro-alterazioni strutturali diffuse della sostanza bianca. In questo studio sono stati messi a confronto bambini che hanno continuato a vivere nelle istituzioni con bambini dati in affidamento garantendo a questi ultimi un buon livello di cure. Lo studio ha confermato che i bambini istituzionalizzati presentavano diffuse alterazioni della sostanza bianca dell’encefalo, mentre i bambini in affidamento familiare non mostravano differenze significative rispetto ai bambini con sviluppo normale, tranne alcune alterazioni del corpo calloso e della corona radiata. Va infine sottolineato che i bambini dati in affidamento familiare avevano fra i 5 e i 31 mesi e che sono stati valutati quando avevano circa 9 anni, ossia dopo un prolungato periodo di affidamento. Da questo studio, particolarmente rigoroso sul piano metodologico, si è messo in luce che le deprivazioni e i traumi precoci si cristallizzano anche a livello cerebrale con alterazioni diffuse della sostanza bianca, ma se si mette in atto un programma compensativo nei primi anni di vita si possono ottenere risultati rilevanti sul piano psicologico e cerebrale.
Ancora una volta di più si conferma ciò che è evidenziato da Heckman, Premio Nobel per l’economia, che gli investimenti economici per programmi di supporto alla prima infanzia sono estremamente efficaci perché compensano deprivazioni e traumi ed evitano la comparsa di disturbi in fasi successive della vita e allo stesso tempo sono vantaggiosi sul piano economico. Come ha messo in luce Heckman (2000), gli interventi precoci durante l’infanzia hanno un’efficacia consistente nelle famiglie svantaggiate: promuovono la scolarizzazione, riducono i comportamenti antisociali, promuovono la produttività nel posto di lavoro e diminuiscono le gravidanze in adolescenza. Si stima che questi interventi abbiano un’efficacia molto elevata: ossia, il rapporto tra costi e benefici. Come sappiamo, il ciclo vitale è dinamico: le competenze cognitive influenzano il successo socioeconomico, così come la competenza socio-emozionale, l’attenzione, la motivazione e la fiducia in se stessi. Più la società tarda a sostenere e aiutare i bambini e i genitori nelle famiglie svantaggiate, più alti saranno i costi quando, più tardi, si cercherà di rimediare allo svantaggio dei bambini e degli adolescenti.
La migliore conclusione è la frase che Bowlby scrisse nel 1951 in “Cure materne e salute mentale del bambino”, volume pubblicato dalla World Health Organization, e che è tuttora valida: “Come i bambini dipendono completamente dai propri genitori per la loro sussistenza, così, in tutte le società, tranne le più primitive, i genitori, soprattutto le madri, dipendono dalla società. Se una società s’interessa ai propri bambini, deve prendersi cura anche dei propri genitori” (p. 127).
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Infant abuse and neglect: clinical implications
ABSTRACT: Theoretical background: Diagnostic criteria of abuse and neglect during infancy are discussed according to the Diagnostic Manual DSM-5. The child abuse and neglect are inserted in a special chapter “Other conditions that may be a focus of clinical attention” critical in the clinical assessment. By the diagnostic point of view they are considered, specially the abuse in the new Chapter “Trauma-and Stressor-Related Disorders” in which there is the distinction between the clinical syndrome regarding the first years of life and those regarding childhood, adolescence and adulthood. Reactive Attachment Disorder, Disinhibited Social Engagement Disorder and Adjustment Disorders all associated to traumatic events are also considered. Objective: The present work reviews the psychodynamics of the abuse and neglect, investigating family dynamics especially parental ones considering also the building of infantile attachment which is negatively influenced with a higher rate of disorganized attachments. Methodology: The review of the literature about abuse and neglect offers a complex perspective about abusing families: parents express less positive emotions and more negative ones (Lyons-Ruth et al., 1987) and abusing mothers are more controlling, intrusive and hostile towards their own children. This affective environment influences children who show a reduced capacity to recognize emotions and an hypersensitivity to recognition of anger, as it has been evidenced also in neurobiological studies. By the psychodynamic point of view, these traumatic events damage the integrative process of the relational experiences inside the infantile self provoking a severe distortion of the self-representation and the own sense of agency (Ogawa et al., 1997). The experiences of abuse and neglect during infancy are strongly predictive of dissociation during adolescence, in fact dissociation represents a typical reaction towards adversity, which implies a deactivation of the right brain (Schore, 2010). Taking into consideration neglecting families parents, they have reduced expectations towards children, show inadequate responsivity towards children’s signals and are not able to contain their emotional distress (Crittenden, 1988). A longitudinal research (Shi et al., 2012) has investigated the influence of maternal withdrawal on the infantile development, which can outcome an antisocial personality disorder. Critical discussion and conclusions: models of risk and resiliency are discussed as possible mediators of the effects of traumas. Particularly recent studies which investigate gene-environment interaction in order to explain traumatic outcomes are considered. In this context, the dominant model is diatesis-stress model (Sameroff, 1983) which suggests the existence of a vulnerability which sensitizes to the environmental stress, further deepened by the theory of context sensitivity and the theory of differential susceptibility. When the stress of the environment is too severe, also the protective factors are inadequate to cope with the situation. It is questionable if the effect of the stress is better explained by a threshold model or by a linear model, in this regard a recent research (Appleyard et al., 2005) has reached a relevant conclusion, the more risk is present, the worse will be the child’s outcome.
KEY WORDS: Abuse, Neglect, Diagnosis.